Quando la vittima si affeziona: la sindrome di Stoccolma
La sindrome di Stoccolma è uno dei fenomeni psicologici più affascinanti e controversi studiati in criminologia. Infatti l’espressione “sindrome di Stoccolma” viene utilizzata per indicare la situazione paradossale derivante da un evento traumatico, in cui la vittima sente un forte legame affettivo con il suo carceriere.
Si tratta di un legame emotivo apparentemente irrazionale che si sviluppa tra vittime e aggressori durante situazioni di estrema tensione, come rapimenti, sequestri o altre forme di coercizione. Ma cosa spinge una persona a provare empatia o persino affetto verso chi le infligge sofferenza?
Questo articolo esplorerà l’origine del termine, il contesto in cui si manifesta e l’impatto che tale dinamica può avere sui protagonisti e sulle indagini criminologiche. La sindrome di Stoccolma, al di là del suo aspetto emotivo, rappresenta una sfida per investigatori, psicologi e criminologi, che devono decifrare il fragile equilibrio tra paura e legame affettivo. Un viaggio nei meandri della mente umana che rivela quanto possano essere complesse le dinamiche del controllo e della sopravvivenza.
Che cos’è la sindrome di Stoccolma
- forte legame positivo;
- totale sottomissione volontaria;
- rapporto di alleanza e solidarietà.
- violenza sulle donne;
- abusi sui minori;
- persone particolarmente devote ad un certo culto;
- prigionieri di guerra;
- sequestro di persona.
Fasi e manifestazione
- inconscia nascita di sentimenti positivi per l’aggressore fin dai primi giorni: la scelta, non razionale, si innesca inoltre come involontario meccanismo automatico legato all’istinto di sopravvivenza. In questo senso, la vittima elimina inconsapevolmente dalla sua mente il rancore nei suoi confronti;
- sentimenti negativi verso le autorità: la certezza che sia la polizia ad intervenire e a portarla in salvo, con il tempo, svanisce. Si innesca quindi un sentimento automatico che tende a rinnegare le autorità e l’aiuto che tarda ad arrivare:
- reciproci sentimenti positivi tra vittima e carnefice: in questa condizione, il rapitore ha meno motivi per scatenare la sua violenza. In effetti, in questi casi l’indice di sopravvivenza dei soggetti è più alta.
- compiacimento degli aggressori;
- simpatia, empatia, affetto e talvolta innamoramento;
- legittimazione e discolpa dei comportamenti subiti;
- sottomissione volontaria;
- rinuncia alla fuga, anche quando se ne presenta la possibilità;
- rifiuto di collaborare con le autorità, nei confronti dei quali prova sentimenti avversi;
- rifiuto di testimoniare.
- fragili
- non ben strutturati
- poco solidi
Cause che innescano la sindrome di Stoccolma
- atti visti come di gentilezza, ad esempio garantire il cibo o lasciare utilizzare i servizi, hanno un impatto benevolo sulla psiche della vittima.
In questo modo tendono a giustificare i comportamenti degli aggressori, percependo che potrebbero essere molto più pesanti e terribili; - condivisione di un ambiente e di una situazione isolata, lontano dal resto del mondo.
Nonostante non sussista alcun rapporto e precedente tra aggressore e vittima, quest’ultima inizia a sviluppare la sensazione di un legame. Allo stesso tempo, nutre un senso di avversione verso l’autorità che dapprima tarda ad arrivare ma poi invade il luogo di condivisione. Alla base di questi sentimenti contribuisce molto una durata prolungata del sequestro. Un sequestro prolungato, infatti, farebbe sì che l’ostaggio conosca più a fondo il suo sequestratore, entri in confidenza con quest’ultimo, fortifichi la simpatia e l’attaccamento nei suoi confronti, cominci a sentirsi dipendente da lui. - sviluppo di senso di fiducia nell’umanità dell’aggressore: più passa il tempo più la vittima conosce il suo carnefice, entrando in confidenza con lui e fortificando l’attaccamento nei suoi confronti. Questa fiducia non è da ricercarsi tanto nel comportamento di quest’ultimo, ma è dal credere che non abbia commesso atti di violenza ancora più gravi di quelli commessi.
Nella mente della vittima
- comportano terrore;
- presentano una grave e forte minaccia per la propria vita;
- non vi sono prospettive di salvezza se non grazie all’aguzzino stesso;
- vi è impossibilità di fuga.
Casi tipo di sindrome di Stoccolma
La sindrome di Stoccolma ha catturato l’attenzione di criminologi, psicologi e sociologi per via delle sue implicazioni nelle dinamiche tra vittime e aggressori. Sebbene il fenomeno sia complesso e relativamente raro, alcuni casi emblematici hanno contribuito a definirne i contorni e a renderlo oggetto di studio.
Di seguito alcuni dei casi più noti in criminologia.
1. Rapina alla Kreditbanken di Stoccolma (1973)
Origine del termine
La sindrome prende il nome da questo episodio, avvenuto a Stoccolma, in Svezia.
Due rapinatori presero in ostaggio quattro persone all’interno di una banca per sei giorni. Durante il sequestro, gli ostaggi svilupparono un forte legame con i loro rapitori, arrivando a difenderli pubblicamente dopo il rilascio e a rifiutarsi di testimoniare contro di loro.
Questo caso è considerato il prototipo della sindrome di Stoccolma, evidenziando come lo stress e la necessità di sopravvivenza possano alterare il comportamento delle vittime.
2. Rapimento di Patricia Hearst (1974)
Il caso dell’ereditiera americana
Patricia Hearst, figlia di un magnate dell’editoria, fu rapita dal gruppo terrorista SLA (Symbionese Liberation Army). Dopo settimane di prigionia, non solo sviluppò empatia per i suoi rapitori, ma si unì al gruppo e partecipò a una rapina a mano armata.
Questo caso è spesso usato per studiare il confine tra sindrome di Stoccolma e indottrinamento, sottolineando l’importanza del contesto psicologico e della pressione sociale.
3. Caso di Natascha Kampusch (1998-2006)
Otto anni di prigionia
Natascha Kampusch, rapita all’età di 10 anni in Austria, rimase prigioniera del suo sequestratore Wolfgang Přiklopil per otto anni.
Dopo la fuga, Natascha espresse comprensione e una sorta di affetto verso il suo rapitore, arrivando a dichiarare di aver pianto per la sua morte.
Questo caso mostra come la dipendenza psicologica e la privazione di libertà possano creare un legame paradossale tra vittima e carnefice.
4. Rapimento di Elizabeth Smart (2002)
La giovane ostaggio negli USA
Elizabeth Smart, rapita a 14 anni, rimase prigioniera per nove mesi.
Durante questo periodo, mostrò comportamenti collaborativi, che alcuni interpretarono come segni di sindrome di Stoccolma. Tuttavia, Elizabeth ha successivamente smentito di essersi affezionata ai suoi rapitori, evidenziando come non tutti i casi di collaborazione siano necessariamente attribuibili a questa sindrome.
Il caso solleva il problema della distinzione tra sindrome di Stoccolma e reazioni di sopravvivenza strategiche.
5. Caso di Jaycee Dugard (1991-2009)
Una vita in cattività
Jaycee Dugard fu rapita a 11 anni e tenuta prigioniera per 18 anni dal suo rapitore e dalla sua complice.
Durante la prigionia, Jaycee sviluppò un apparente legame con i suoi sequestratori, una dinamica interpretata come manifestazione della sindrome di Stoccolma.
Questo caso evidenzia come la durata della prigionia e il trattamento relativamente “benevolo” possano influenzare la formazione di legami emotivi.
6. Il caso Colleen Stan (1977)
La ragazza nella scatola
Colleen Stan fu rapita e tenuta prigioniera per sette anni da una coppia negli Stati Uniti. Fu sottoposta a torture fisiche e psicologiche, ma sviluppò un senso di dipendenza emotiva dal suo rapitore, arrivando a non cogliere alcune opportunità di fuga.
Il caso è utilizzato per studiare il ruolo della manipolazione psicologica e della coercizione nella sindrome di Stoccolma.
Questi casi dimostrano come la sindrome di Stoccolma sia un fenomeno complesso, che varia a seconda del contesto, della durata della prigionia e della psicologia delle vittime. Per i criminologi, tali episodi offrono uno spunto per analizzare non solo le dinamiche tra vittime e carnefici, ma anche l’impatto di stress, paura e dipendenza sul comportamento umano.