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Quando la vittima si affeziona: la sindrome di Stoccolma

Quando la vittima si affeziona: la sindrome di Stoccolma

sindrome di Stoccolma
  • Sara Elia
  • 31 Dicembre 2024
  • Criminologia
  • 8 minuti
  • 15 Maggio 2025

Quando la vittima si affeziona: la sindrome di Stoccolma

La sindrome di Stoccolma è uno dei fenomeni psicologici più affascinanti e controversi studiati in criminologia. Infatti l’espressione “sindrome di Stoccolma” viene utilizzata per indicare la situazione paradossale derivante da un evento traumatico, in cui la vittima sente un forte legame affettivo con il suo carceriere.

Si tratta di un legame emotivo apparentemente irrazionale che si sviluppa tra vittime e aggressori durante situazioni di estrema tensione, come rapimenti, sequestri o altre forme di coercizione. Ma cosa spinge una persona a provare empatia o persino affetto verso chi le infligge sofferenza?

Questo articolo esplorerà l’origine del termine, il contesto in cui si manifesta e l’impatto che tale dinamica può avere sui protagonisti e sulle indagini criminologiche. La sindrome di Stoccolma, al di là del suo aspetto emotivo, rappresenta una sfida per investigatori, psicologi e criminologi, che devono decifrare il fragile equilibrio tra paura e legame affettivo. Un viaggio nei meandri della mente umana che rivela quanto possano essere complesse le dinamiche del controllo e della sopravvivenza.

Indice
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Sindrome di Stoccolma: origine del termine

Il termine “sindrome di Stoccolma” deriva da un evento accaduto tra il 23 e il 28 agosto 1973, quando Jan-Erik Olsson tentò di rapinare la Kreditbanken a Norrmalmstorg, nel centro di Stoccolma.

Durante la rapina, Olsson prese in ostaggio quattro impiegati della banca e chiese la liberazione del suo ex compagno di cella, Clark Olofsson, che fu portato sul posto dalle autorità.
La situazione si protrasse per sei giorni, durante i quali gli ostaggi svilupparono un legame con i loro sequestratori, arrivando a temere più l’intervento della polizia che i rapitori stessi.
Una delle ostaggi, Kristin Enmark, espresse questa preoccupazione direttamente al primo ministro svedese Olof Palme durante una telefonata. Alla fine della crisi, gli ostaggi rifiutarono di testimoniare contro i rapitori e alcuni mantennero contatti con loro anche dopo l’arresto.

Coinage del termine

Il concetto fu formalizzato dallo psichiatra e criminologo svedese Nils Bejerot, che collaborava con la polizia durante la crisi.

Bejerot definì il fenomeno come “sindrome di Norrmalmstorg“, dal nome della piazza dove si trovava la banca. Successivamente, il termine divenne noto a livello internazionale come “sindrome di Stoccolma”.

Sebbene la sindrome di Stoccolma sia ampiamente riconosciuta nel linguaggio comune e nei media, non è ufficialmente classificata come disturbo mentale nei principali manuali diagnostici, come il DSM-5 o l’ICD-11.
Alcuni esperti la considerano più un meccanismo di sopravvivenza che una vera e propria patologia, suggerendo che le vittime sviluppino legami con i loro aggressori per aumentare le probabilità di sopravvivenza. Altri critici sostengono che il termine sia stato utilizzato per sminuire le critiche rivolte alla gestione della crisi da parte della polizia e per etichettare le reazioni delle vittime in modo semplicistico.

Che cos’è la sindrome di Stoccolma

La sindrome di Stoccolma è un particolare stato di dipendenza psicologica/affettiva in cui la vittima di un sequestro, di un atteggiamento aggressivo, di violenza verbale, psicologica o di altri tipi, avverte un sentimento di simpatia, empatia, fiducia, attaccamento e amore nei confronti del suo carnefice. Anche ad avvenuta “liberazione”, in senso metaforico o meno, continua a nutrire sentimenti positivi nonostante l’episodio abbia provocato uno shock con pesanti conseguenze psicologiche.
 
Durante i maltrattamenti subiti la vittima inizia a maturare nei confronti dell’aggressore:
  • forte legame positivo;
  • totale sottomissione volontaria;
  • rapporto di alleanza e solidarietà. 
A livello statistico, essa è maggiormente diffusa in situazioni di
  • violenza sulle donne;
  • abusi sui minori;
  • persone particolarmente devote ad un certo culto;
  • prigionieri di guerra;
  • sequestro di persona. 
Nonostante sia definita come tale, la sindrome di Stoccolma non è in realtà considerata una patologia clinica nè rientra nelle malattie psichiatriche, mancando dei requisiti necessari per essere inserito tra i DSM (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali). 
Per questo motivo, ad oggi non esistono criteri validati per poter formulare una diagnosi e non esiste alcun piano terapeutico specifico.
Secondo gli esperti, a livello generale, la condizione si risolve con il tempo e con il supporto e l’affetto della rete familiare e sociale.

Fasi e manifestazione 

La sindrome di Stoccolma si articola in 3 differenti fasi:
  • inconscia nascita di sentimenti positivi per l’aggressore fin dai primi giorni: la scelta, non razionale, si innesca inoltre come involontario meccanismo automatico legato all’istinto di sopravvivenza. In questo senso, la vittima elimina inconsapevolmente dalla sua mente il rancore nei suoi confronti;
  • sentimenti negativi verso le autorità: la certezza che sia la polizia ad intervenire e a portarla in salvo, con il tempo, svanisce. Si innesca quindi un sentimento automatico che tende a rinnegare le autorità e l’aiuto che tarda ad arrivare:
  • reciproci sentimenti positivi tra vittima e carnefice: in questa condizione, il rapitore ha meno motivi per scatenare la sua violenza. In effetti, in questi casi l’indice di sopravvivenza dei soggetti è più alta.
Nello specifico, i comportamenti che la vittima presenta sono:
  • compiacimento degli aggressori;
  • simpatia, empatia, affetto e talvolta innamoramento;
  • legittimazione e discolpa dei comportamenti subiti;
  • sottomissione volontaria;
  • rinuncia alla fuga, anche quando se ne presenta la possibilità;
  • rifiuto di collaborare con le autorità, nei confronti dei quali prova sentimenti avversi;
  • rifiuto di testimoniare. 
La comparsa della sindrome di Stoccolma di certo ha una forte correlazione con la personalità della vittima. Di solito si tratta infatti di caratteri:
  • fragili
  • non ben strutturati
  • poco solidi
Occorre infine sottolineare che in genere il carnefice effettua un lavaggio del cervello depersonalizzante.

Cause che innescano la sindrome di Stoccolma

Studi sull’argomento hanno registrato alcune condizioni di base che sono comunemente determinanti nello sviluppo della sindrome di Stoccolma.
Nello specifico:
  • atti visti come di gentilezza, ad esempio garantire il cibo o lasciare utilizzare i servizi, hanno un impatto benevolo sulla psiche della vittima.
    In questo modo tendono a giustificare i comportamenti degli aggressori, percependo che potrebbero essere molto più pesanti e terribili;
  • condivisione di un ambiente e di una situazione isolata, lontano dal resto del mondo.
    Nonostante non sussista alcun rapporto e precedente tra aggressore e vittima, quest’ultima inizia a sviluppare la sensazione di un legame. Allo stesso tempo, nutre un senso di avversione verso l’autorità che dapprima tarda ad arrivare ma poi invade il luogo di condivisione. Alla base di questi sentimenti contribuisce molto una durata prolungata del sequestro. Un sequestro prolungato, infatti, farebbe sì che l’ostaggio conosca più a fondo il suo sequestratore, entri in confidenza con quest’ultimo, fortifichi la simpatia e l’attaccamento nei suoi confronti, cominci a sentirsi dipendente da lui.
  • sviluppo di senso di fiducia nell’umanità dell’aggressore: più passa il tempo più la vittima conosce il suo carnefice, entrando in confidenza con lui e fortificando l’attaccamento nei suoi confronti. Questa fiducia non è da ricercarsi tanto nel comportamento di quest’ultimo, ma è dal credere che non abbia commesso atti di violenza ancora più gravi di quelli commessi.

Nella mente della vittima

Nonostante il legame affettivo che la vittima affetta da sindrome di Stoccolma crea nei confronti dell’aggressore potrebbe sembrare un fenomeno insensato, la sua spiegazione logica è in realtà molto semplice.
 
In situazioni di forte stress, gli individui sono predisposti ad instaurare rapporti con altri soggetti per combattere le aggressioni esterne. In quest’ottica, un carnefice che non maltrattata la vittima in modo esagerato, come ci si aspetterebbe, ma la assiste procurandone il nutrimento e la sopravvivenza, diventa un alleato per combattere l’evento stressante.
 
Si tratta quindi di risposta emotiva automatica ed inconscia al trauma, che può colpire soggetti di ogni sesso, età e senza distinzione socioculturale quando percepisce anche il sentore di gentilezza da parte del proprio aggressore in contesti che:
 
  • comportano terrore;
  • presentano una grave e forte minaccia per la propria vita;
  • non vi sono prospettive di salvezza se non grazie all’aguzzino stesso;
  • vi è impossibilità di fuga. 
Alcune vittime dopo la liberazione in caso di sequestro, anche a distanza di tempo, hanno mantenuto un atteggiamento ostile nei confronti delle autorità e amorevole nei confronti degli ex carcerieri. La maggior parte si è inoltre rifiutata di testimoniare in tribunale contro di loro. 
In molti hanno sentito infine la necessità di far visita in prigione per accertarsi del loro benessere mentre provavano sensi di colpa per la loro carcerazione.

Casi tipo di sindrome di Stoccolma

La sindrome di Stoccolma ha catturato l’attenzione di criminologi, psicologi e sociologi per via delle sue implicazioni nelle dinamiche tra vittime e aggressori. Sebbene il fenomeno sia complesso e relativamente raro, alcuni casi emblematici hanno contribuito a definirne i contorni e a renderlo oggetto di studio.
Di seguito alcuni dei casi più noti in criminologia.

1. Rapina alla Kreditbanken di Stoccolma (1973)

Origine del termine
La sindrome prende il nome da questo episodio, avvenuto a Stoccolma, in Svezia.
Due rapinatori presero in ostaggio quattro persone all’interno di una banca per sei giorni. Durante il sequestro, gli ostaggi svilupparono un forte legame con i loro rapitori, arrivando a difenderli pubblicamente dopo il rilascio e a rifiutarsi di testimoniare contro di loro.

Questo caso è considerato il prototipo della sindrome di Stoccolma, evidenziando come lo stress e la necessità di sopravvivenza possano alterare il comportamento delle vittime.

2. Rapimento di Patricia Hearst (1974)

Il caso dell’ereditiera americana
Patricia Hearst, figlia di un magnate dell’editoria, fu rapita dal gruppo terrorista SLA (Symbionese Liberation Army). Dopo settimane di prigionia, non solo sviluppò empatia per i suoi rapitori, ma si unì al gruppo e partecipò a una rapina a mano armata.

Questo caso è spesso usato per studiare il confine tra sindrome di Stoccolma e indottrinamento, sottolineando l’importanza del contesto psicologico e della pressione sociale.

3. Caso di Natascha Kampusch (1998-2006)

Otto anni di prigionia
Natascha Kampusch, rapita all’età di 10 anni in Austria, rimase prigioniera del suo sequestratore Wolfgang Přiklopil per otto anni.
Dopo la fuga, Natascha espresse comprensione e una sorta di affetto verso il suo rapitore, arrivando a dichiarare di aver pianto per la sua morte.

Questo caso mostra come la dipendenza psicologica e la privazione di libertà possano creare un legame paradossale tra vittima e carnefice.

4. Rapimento di Elizabeth Smart (2002)

La giovane ostaggio negli USA
Elizabeth Smart, rapita a 14 anni, rimase prigioniera per nove mesi.
Durante questo periodo, mostrò comportamenti collaborativi, che alcuni interpretarono come segni di sindrome di Stoccolma. Tuttavia, Elizabeth ha successivamente smentito di essersi affezionata ai suoi rapitori, evidenziando come non tutti i casi di collaborazione siano necessariamente attribuibili a questa sindrome.

Il caso solleva il problema della distinzione tra sindrome di Stoccolma e reazioni di sopravvivenza strategiche.

5. Caso di Jaycee Dugard (1991-2009)

Una vita in cattività
Jaycee Dugard fu rapita a 11 anni e tenuta prigioniera per 18 anni dal suo rapitore e dalla sua complice.
Durante la prigionia, Jaycee sviluppò un apparente legame con i suoi sequestratori, una dinamica interpretata come manifestazione della sindrome di Stoccolma.

Questo caso evidenzia come la durata della prigionia e il trattamento relativamente “benevolo” possano influenzare la formazione di legami emotivi.

6. Il caso Colleen Stan (1977)

La ragazza nella scatola
Colleen Stan fu rapita e tenuta prigioniera per sette anni da una coppia negli Stati Uniti. Fu sottoposta a torture fisiche e psicologiche, ma sviluppò un senso di dipendenza emotiva dal suo rapitore, arrivando a non cogliere alcune opportunità di fuga.

Il caso è utilizzato per studiare il ruolo della manipolazione psicologica e della coercizione nella sindrome di Stoccolma.

Questi casi dimostrano come la sindrome di Stoccolma sia un fenomeno complesso, che varia a seconda del contesto, della durata della prigionia e della psicologia delle vittime. Per i criminologi, tali episodi offrono uno spunto per analizzare non solo le dinamiche tra vittime e carnefici, ma anche l’impatto di stress, paura e dipendenza sul comportamento umano.

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