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La sindrome di Medea e il malessere delle madri infanticide

La sindrome di Medea e il malessere delle madri infanticide

sindrome di Medea - malessere madri infanticide
  • Sara Elia
  • 19 Dicembre 2024
  • Guide
  • 5 minuti

La sindrome di Medea, dalla mitologia greca alla società odierna

La sindrome di Medea è un termine che evoca uno dei più antichi e tragici archetipi della mitologia greca: il dolore e la follia che portano una madre a uccidere i propri figli. Sebbene nasca come metafora letteraria, oggi il concetto viene spesso utilizzato per descrivere un fenomeno inquietante e complesso, legato a episodi di infanticidio che scuotono le cronache contemporanee.

Quali sono le cause profonde di un gesto così estremo? Quali sofferenze psichiche, culturali o sociali possono condurre una madre a compiere un atto tanto lacerante?

In questo articolo esploreremo il legame tra il mito di Medea e il malessere odierno di alcune madri, analizzando le possibili radici psicologiche, sociali e culturali di questo fenomeno. Un viaggio tra miti e realtà, per comprendere meglio un argomento tanto delicato quanto necessario da affrontare.

Indice
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Che cos’è la sindrome di Medea

Nell’antica tragedia greca di Euripide, una madre abbandonata dal marito e padre dei suoi figli, decide di punirlo privandolo di ciò a cui teneva di più: i suoi figli, uccidendoli.
 
Nella trasposizione moderna, la sindrome di Medea è una situazione in cui la madre mette in atto un infanticidio, uccidendo i figli non necessariamente in senso fisico ma anche psicologico ed emotivo.
Il termine “Sindrome di Medea“, utilizzato per la prima volta dallo psicologo Jacobs, sottintende il comportamento materno finalizzato alla distruzione del rapporto tra padre e figli, utilizzati come mezzo di vendetta per far soffrire in caso di separazioni conflittuali.
 
Rispetto al padre, le madri trascorrono molto più tempo insieme ai figli. Per questo motivo percepiscono di avere un maggiore potere, e una sorta di onnipotenza, nella relazione con i figli per cercare di annientare l’altro.
Questo provoca talvolta tragiche conseguenze come l’infanticidio.
 
Di certo ciò che si cela dietro un tale evento tragico è complesso e legato a situazioni emotive e psichiche di fragilità, depressione, solitudine e senso di trascuratezza.
Non solo, una madre sperimenta una serie di micro -lutti che comprendono
  • nascita: distacco fisico con il figlio;
  • sostituzione del bambino immaginato durante la gravidanza con quello reale e conseguenti bisogni da soddisfare;
  • idealizzazione della maternità.

Nella mente della donna

I fattori scatenanti della sindrome di Medea che conducono a una situazione così atroce sono molteplici.
La psicologia ha provato a trovare spiegazioni da associare a questo complesso, tra cui:
 
  • fragilità psichica e malessere psicologico negato, mai accettato e non curato;
  • trascuratezza emotiva;
  • disabilità intellettiva;
  • salute psicofisica critica;
  • personalità caratterizzata da una tendenza all’aggressività e allo cedere agli impulsi;
  • mancato legame affettivo-emotivo con il figlio;
  • presenza di esperienze traumatiche nel passato;
  • contesto attuale di vita e livello culturale ed economico precario;
  • senso di solitudine, frustrazione e rabbia;
  • eventuale presenza di depressione post-parto, psicosi puerperale e tendenze suicide.
Si tratta quindi di donne predisposte alle psicopatologie, che manifestano condizioni di sofferenza che devono essere riconosciute e sulle quali si deve intervenire prima di giungere a conseguenze inevitabili.
 
A livello generale, una madre assassina, nella propria infanzia, probabilmente ha sviluppato uno stile di attaccamento insicuro o disorganizzato con la propria madre. Questo fattore ha influito sul comportamento e modo di relazionarsi mantenuto stabile da adulti, sia con i partner che con i figli.
Occorre però precisare che ciò non significa che la donna sarà di per certo una madre assassina del proprio bambino.

Campanelli d’allarme

Nel momento del fatto, la madre infanticida con ogni probabilità si trova in stato confusionale. Ma ciò non significa che, nei momenti precedenti, non esistano dei campanelli di allarme che avvertono che la situazione potrebbe arrivare ad avere dei risvolti tragici. 
 
Il problema è che, purtroppo, la maggior parte delle volte vengono ignorato presi in scarsa considerazione. 
Come abbiamo visto precedentemente, non sempre la sindrome di Medea porta all’infanticidio né esso è prevedibile. Ma una neomamma sottoposta a forte stress emotivo e con delle criticità preesistenti dovrebbe essere oggetto di frequenti controlli approfonditi.
In quest’ottica, la prevenzione è fondamentale. Lavorare sui propri punti di debolezza e disagi emotivi permette di attenuare un malessere prima che si giunga a un punto di non ritorno. 
 
La gravidanza di per sé costituisce un momento rivoluzionario nella vita della donna, che può essere vissuto in modo positivo ma anche connotato da emozioni spiacevoli. Per questo motivo è sempre bene rivolgersi a uno psicologo che possa supportare compiere la sua transazione in modo sereno.
 
Ad oggi, la sindrome di Medea non è inserita nel DSM-5 (Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali) in quanto non è propriamente un disturbo ufficiale. Si tratta infatti dell’espressione culmine di un altro disagio importante.

Sindrome di Medea: il caso di Chiara Petrolini

Un triste recente esempio di caso di sindrome di Medea sfociato in infanticidio si è svolto in Italia nell’agosto 2024.
 
Chiara Petrolini, 22enne di Vignale di Traverseto (Parma) ha partorito da sola in casa e seppellito per ben due volte i suoi figli appena nati nel vialetto di casa.
I cadaveri, scoperti dalla nonna, hanno portato alla luce inquietanti verità.
La giovane non aveva mai mostrato nessun eccesso. Studentessa modello di Giurisprudenza, babysitter occasionale, volontaria nei campi estivi in parrocchia, con alle spalle una famiglia benestante.
 
Rimasta incinta del compagno per ben due volte, aveva nascosto le gravidanze non solo a lui ma anche agli amici e ai familiari. La pancia, infatti, non era evidente, nonostante il parto sia avvenuto al limite massimo di gestazione di quaranta settimane.
 
Per mesi Chiara aveva effettuato ricerche su Internet su “come non far vedere la pancia”, “come mantenere nascosta la gravidanza, “come “avere un aborto” e come acquistare “erbe e misoprostolo”, un farmaco abortivo usato per indurre il travaglio. C’è addirittura un video che Chiara avrebbe visionato su come si decompone un cadavere. 
 
Ma perché non chiedere aiuto?
Formalmente Chiara Petrolini ha dichiarato agli inquirenti di averlo fatto perché temeva il giudizio degli altri, ma come è evidente ancora molte domande rimangono senza risposta.

Anche Chiara Petrolini rappresenta il simbolo di un dramma che non può essere ridotto a un semplice atto di follia. Un gesto che, al di là della sua atrocità, richiama dinamiche di sofferenza interiore, disperazione e malessere psichico che spesso sfuggono a una spiegazione razionale.
È necessario interrogarsi sulle radici profonde di tali gesti: condizioni psichiatriche trascurate, isolamento sociale, pressioni culturali o familiari che possono trasformarsi in detonatori per azioni estreme.

Questo parallelismo tra mito e cronaca ci invita a riflettere non solo sulla gravità del singolo gesto, ma anche sulla necessità di comprendere e prevenire i contesti che conducono al manifestarsi della “sindrome di Medea” nella società contemporanea.

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